I DIECI CECI - Fiabe da... gustare e con cui giocare

Primo cece: Storia di una pera di cera

C’era una volta...anzi: una volta, la cera......

si usava per fare candele; nella cera, immerso in essa come un bimbo nel ventre della mamma, un lungo filo bianco detto “ stoppino” (naturalmente dalla stoppa nascono gli stoppini), attendeva di essere acceso e con la sua fiammella, illuminare la notte nera.

Oggi, ci sono le lampade di emergenza e quando salta l’interruttore della luce, la stanza viene subito illuminata dalla provvidenziale lampada.

Quando ancora c’erano le candele, invece, i bimbi ne avevano sempre una sul comodino ben accomodata (tutto ciò che è sul comodino finisce per accomodarsi) in un pratico sostegno con un anello rigido per infilarci il pollice e sostenere il tutto; questo sostegno si chiamava e si chiama tuttora nei mercatini dell’antiquario: bugia.

Perchè si chiami bugia, il portacandele, sicuramente qualche dotto sapientone ve lo saprà dire ma io ho qui una storia che spiega per filo e per segno com’è andata la faccenda e se vi convincerà potrete raccontarla come se fosse vostra.

Dunque, c’era una volta un bimbo che era veramente poverissimo ma non povero nel senso di “povero bimbo!” ma proprio nel senso di “bimbo povero” che è fondamentalmente diverso perchè Luigino (il bimbo povero si chiamava così) era un bimbo povero di mezzi finanziari ma ricco di fantasia e di voglia di metterla a frutto.

Luigino viveva con il nonno che faceva il contadino nelle terre di un ricchissimo barone con il vizio delle scommesse.

Spesso i vizi dei baroni fanno la fortune della povera gente che da gente povera diventa gente benestante e, come tale, non può certo lamentarsi.

Ebbene, il barone aveva molti possedimenti (li possedeva tutti da solo ed è per questo che era molto ricco ma anche molto solo e molto annoiato) e molti bellissimi oggetti di valore ma ciò che lo rendeva più fiero era un frutteto ovvero un appezzamento di terra piantumato ad alberi di frutta che producevano svariati tipi di frutta ma in particolare, delle pere eccezionali per forma e dimensioni, per mai viste che il barone non mangiava perchè erano troppo belle per essere mangiate e semplicemente guardava finchè non si staccavano dall’albero e marcivano per terra.

Questo fatto dello staccarsi e del marcire era una vera spina nel fianco del povero barone (questo si che era “povero barone!”) che non si dava pace del fatto che senza il suo permesso, i frutti osassero staccarsi dal ramo, cadere per terra e lasciarsi annerire dal tempo.

“Devo trovare una soluzione! Sono o non sono il padrone?” pensava tra sè e sè il barone che quando era pensieroso pensava anche in rima.

Così decise di emettere un bando e di diffonderlo  in tutta la sua baronia.

Il bimbo Luigino che aveva parecchio tempo a disposizione visto che non poteva andare a scuola e che nel tempo libero aveva voluto imparare a leggere (pensavate che si può imparare a leggere solo a scuola? Per leggere bisogna volerlo fare, ecco tutto) lesse il bando che diceva così:

“Verranno assegnati una terra, una casa e un pozzo a colui che riuscirà a non far marcire le mie bellissime pere”

e decise di partecipare al concorso anche perchè si era stufato di dormire per terra nel fienile e, inoltre, aveva bisogno di lavarsi e il pozzo era fondamentale a tal proposito visto che tutta l’acqua disponibile era del barone che la usava per fontane e ruscelli e ai contadini toccava una sola brocca per bere al mattino e una sola brocca per bere alla sera.

Luigino era affascinato dalla bellezza della cera che si faceva morbida al calore della fiamma e si modellava in forme fantasmagoriche colando giù per la candela e rassodandosi al mattino come il miracolo di un elfo.

Luigino era stato affascinato anche dalla bellezza delle pere del barone, un giorno che gli era riuscito di vederle prima che cadessero per terra e marcissero.

Se le era anche sognate, quelle pere! Bionde, arrotondate sotto, a forma...di pera, appunto, quasi trasparenti nella rugiada del mattino.

Così mise in atto il suo piano.

Ogni mattina, si intrufolava nella stanza da letto del barone e tirava via dal suo comodino  il moccolo di candela superstite e se lo metteva nel cappello.

Quando si rese conto che c’era cera sufficiente ( attenzione alla cera senza l’apostrofo perchè è il fulcro di questa storia ...) la ammorbidì con il calore delle sue manine e pian pianino la modellò e accarezzandola e lisciandola, arrotondandola e allungandola, la trasformò in una bellissima pera proprio uguale a quelle bene amate del barone.

Si presentò al palazzo con il suo frutto nel fazzoletto e invitò il barone a recarsi con lui al frutteto.

Gli fece chiudere gli occhi e prese dal ramo del pero un picciolo e due foglie per completare la sua opera d’arte, poi fece aprire gli occhi al barone e fece finta di staccare dal ramo il frutto.

Il barone non era contento e lo chiamò impostore perchè avrebbe dovuto attendere con lui che il frutto si staccasse e marcisse ma Luigino gli disse che quel frutto non sarebbe mai marcito se nessuno l’avesse toccato e fosse rimasto al fresco ben protetto dal calore e dai raggi del sole.

Il barone accettò che Luigino ponesse sotto una campana divetro la sua pera e insieme a lui controllò ogni giorno che non marcisse.

Trascorsi dieci giorni, dovette accettare il fatto che Luigino aveva vinto la scommessa e dovette cedere a lui ed a suo nonno un terreno, una casa ed un pozzo.

Quando però la sua ingordigia lo spinse a togliere la campana di vetro e ad accarezzare la pera a lungo tra le mani... dalla cera appiccicosa che gli colava sulle dita si rese conto dell’ inganno subito e cominciò ad urlare con la cera di pera che gli si scioglieva tra le mani “E’ una bugia! E’ una bugia!” ma la casa, il terreno e il pozzo erano ormai di Luigino e del nonno per atto notarile e non si poteva tornare indietro.

Al barone rimase la soddisfazione di avere finalmente coniato un nome per il portacandele....

SECONDO CECE: LA BIMBA BOMBA

Questa è la storiella di una bimba che non voleva mangiare.

C’era una volta una bimba magrina che si chiamava Bella.

Questa bimba era molto capricciosa forse perchè tutti le dicevano sempre:”Bella qua! Bella là! Bella buongiorno! Bella buonasera!” sicchè aveva dei modi molto sgarbati con tutti e soprattutto mangiava solo krapfen alla crema e wafer al cioccolato e non voleva nient’altro.

La sua mamma, la nonna, persino i fratellini più piccoli la pregavano in tutte le lingue di mangiare qualcosa di genuino e le dicevano:

“ Eat the vegetables, my dear Belle” o anche “ Come unas frutas mi querida Belle!” e persino “ Mange un morceau de viande, Belle!” ma la bimba non se ne dava per inteso, tanto, comunque, era sempre Bella per tutti!

Tutti i bimbi crescono in altezza ma a furia di nutrirsi solo di krapfen e wafer, la piccola Bella cresceva in larghezza e quel che è peggio le era venuto uno strano accento tedesco che aveva preso sempre più piede in lei, portandola pian piano a sostituire ogni parola con parole tedesche fino ad articolare intere frasi esclusivamente in Tedesco.

Ora, nessuno aveva niente contro il Tedesco, la meravigliosa lingua del poeta Goethe, ma purtroppo, nessuno della sua famiglia, come abbiamo visto, ne masticava una sola parola preferendo cibarsi abbondantemente  di tutte le altre lingue a disposizione, compreso l’Italiano.

La piccola Bella era così sempre più rotonda e sempre più monolingue ed oramai più che camminare rotolava ma non poteva far niente per cambiare il suo stato perchè nessuno la capiva e lei non capiva nessuno.

La cosa grave fu quando cominciò a sollevarsi da terra come un palloncino areostatico.

Sempre più spesso le capitava, quando sollevava un piedino per salire un gradino, ad esempio, o provava a fare un piccolo saltello, di staccarsi da terra per diversi metri, e il fenomeno era tanto più evidente quanto più ella cresceva in larghezza.

Un giorno Bella si staccò da terra a tal punto da andare ad impigliarsi nei rami dell’albero più alto del suo giardino.

Furono chiamati i pompieri ma nessuno aveva una scala così alta e soprattutto nessuno riusciva a capire quello che Bella gridava da lassù.

Casualmente, uno dei pompieri aveva sposato una cuoca tedesca e così la pregò attraverso il proprio cellulare di accorrere sul posto.

La donna che aveva appena sfornato una magnifica focaccia  , pensò che era una buona occasione per farla assaggiare calda calda al maritino e ne portò un bel pezzo con sè nello scaldavivande.

Dimenticavo di dirvi che la cuoca tedesca era specializzata in cucina italiana, anzi napoletana e gestiva un ristorantino niente male ‘ncoppa a Posillipo .... insomma era una cuoca poliglotta e sapeva cuocere un piatto di patate in tutte le lingue.

Quando vide la povera bimba sull’albero la apostrofò in Tedesco e poi le propose la pizza in Italiano condita con un po’ di pommarola napoletana verace.

Bella fu felicissima di accettare l’invito e si fece mandare sù il pezzo di piazza legato ad un palloncino colorato rigonfio di elio.

Quando cominciò a sbocconcellare la piazza accadde una specie di miracolo: ad ogni boccone la bimba diceva una parola nuova del tipo

“ Good!” e poi “Bueno!” e anche “C’est bon!” e infine “Buono! Buono!” per concludere con un “Ce n’è un altro po’ ?”.

Tutti i familiari di Bella erano sbalorditi ed entusiasti più entusiasti che sbalorditi in verità perchè tutti sapevano quanto erano buone le pizze della cuoca tedesca...

La cosa più entusiasmante era vedere quella bimba bomba sgonfiarsi a suon di bocconi di pizza margherita e parlare finalmente tutte le lingue con i suoi cari che erano finalmente suoi cari e non solo estranei alloglotti.

Naturalmente Bella non mangiò mai più solo krapfen e wafer ma neanche solo pizza o pasta: mangiò tutto ciò che di buono e nutriente il buon Dio e le mani sapienti di coloro che amiamo sanno offrirci e di tutto seppe mangiarne con misura per gustare la vita in tutte le...salse.


TERZO CECE:QUEL GRAN FICO DI NICO!

A Sud d’Europa c’è una terra a forma di  stivale che si chiama Italia, a Sud di quella terra c’è una regione che si chiama Puglia e a Sud di quella regione c’è un posto che si chiama S.Maria di Leuca, anzi “Capo” di Santa Maria di Leuca, perchè a Sud di quello lì non c’è niente altro se non il mare e perciò viene detto anche Capo de finibus terrae che in Latino vuol dire Capo ai confini della Terra.

In effetti, se uno la terra la vede da Nord, Leuca è proprio alla fine ma se uno la vede viceversa, Leuca diventa il principio ed è perquesto che la nostra storia principia proprio da capo anzi dal Capo di Santa Maria di Leuca.

A Leuca, come in tutti i posti importanti del mare che siano alla fine o al principio della terra emersa, c’è un bellissimo faro.

Il faro di Leuca è famoso ovunque, vengono da più parti a vederlo illuminare il mare nelle notti di tempesta.

Dentro il faro c’è, ovviamente, il guardiano del faro che, nella nostra storia si chiama Nico.

Nico è bello, giovane, alto, robusto e sempre abbronzato. Dorme tutto il giorno, sdraiato sull’amaca nel suo giardino e di notte, illumina il mare con la luce del suo faro.

Un giorno, passa di là una turista olandese che aveva sentito parlare del famoso faro di Leuca e del suo guardiano.

Nico, come sempre, dorme sdraiato nella sua amaca e russa anche un po’ ma all’Olandesina sembra lo stesso il più bello spettacolo che abbia mai visto.

Rimane un bel po’ a guardare con la bocca aperta finchè una mosca non tenta di entrarvi e allora la richiude e pensa che è tempo di andare via...cosa potrebbe pensare quel giovane addormentato se si  svegliasse?

E in effetti, il giovane non era poi del tutto addormentato chè la mosca era passata poco prima dalla punta del suo naso facendogli il solletico e portandolo a socchiudere leggermente l’occhio destro...egli aveva intravisto quella bionda fanciulla che lo fissava a bocca aperta e così si era lasciato ammirare, abituato ai complimenti delle belle ragazze, continuando a far finta di dormire.

Il giorno successivo, la scena si ripete.Nico socchiude gli occhi e si accorge che la luminosa figura del giorno prima è lì che lo guarda, nascosta dietro ad un albero, con aria incantata.

Nico non è più in sè dalla gioia, pensa: “ Sono proprio un ragazzo meraviglioso!Oramai vengono da tutto il mondo solo per vedere me..tra un po’ non ci sarà bisogno nemmeno di accendere il faro...basterà la mia bellezza per illuminare il mare!”

Ma...che succede? La ragazza ha preso coraggio, ha scavalcato il muretto di cinta e si avvicina cautamente a lui.

Che cosa vorrà fare? Lo bacerà dolcemente come il principe con la Bella Addormentata? Gli lascerà un biglietto amoroso in cui lo invita a trascorrere tutto il resto della sua vita con lei? Siederà accanto a lui per ammirarlo da vicino e imprimere così bene il suo volto nella memoria da non scordarlo mai più?

Il cuore di Nico batte a mille, ha quasi paura che possa fare rumore facendo scappar via la bella visione ma niente paura, lei si avvicina sempre di più, ecco è  a un passo da lui, ora si piega e...ma che cosa fa? Ha preso qualcosa dal tavolino, lo stringe forte tra le mani e scappa via...Nico si solleva e grida, poi salta in piedi e cerca di rincorrere la fanciulla ma lei si è dileguata come se non fosse mai stata lì.

Nico indispettito e contrariato torna alla sua amaca....ecco cosa guardava e cosa voleva quella meravigliosa visione! Non certo lui!

Nico aveva sempre, accanto a sè, un cestino di fichi neri raccolti nel giardino della sua cara nonna... fichi fragranti, dalla buccia lucida e tesa, leggermente velata di una patina argentea come se lo zucchero interno si riversasse anche sulla buccia...fichi eccezionali cresciuti al caldo sole del Sud del Sud, innaffiati da fresca acqua di pozzo che bastavano a nutrire e ristorare Nico fino a sera, momento in cui saliva al faro a consumare una lauta cena...

Che delusione! Meno male che gliene ha lasciato ancora uno, il più grosso e maturo...Nico lo prende con delicatezza, lo sbuccia pian piano e poi con soddisfazione ne addenta la polpa rossa, dolce e morbida pensando che comunque fare il guardiano del faro è proprio un bel mestiere....


QUARTO CECE: ADRIANO E LA SPIGA DI GRANO

C’era una volta un ragazzino che si chiamava Adriano e che era convinto di essere brutto, incapace di fare alcunchè e di scarsa compagnia, insomma pensava di valere poco.

In realtà era molto grazioso, con riccioli castani e vivaci occhi neri, una voce argentina e tutti gli arti al posto giusto perfettamente funzionanti.

Godeva anche di una discreta salute, non si ammalava mai e aveva  un cagnolino che lo seguiva ovunque e faceva di tutto per dimostrargli il proprio affetto.

Purtroppo la convinzione di Adriano era più forte di questi dati di fatto e i pensieri invisibili che si annidavano nella sua mente erano, ahimè, molto più consistenti delle sue qualità reali.

Così, Adriano era sempre solo perchè “pensava” di essere solo e non faceva mai niente di buono perchè “era convinto” di non poter fare mai cosa utile al mondo.

Un giorno, mentre era disteso a pensare a tutte le sue disgrazie che prendevano corpo man mano che egli le inventava nel suo pensiero, sentì un pizzicorino dietro la schiena che per un attimo lo distrasse dalle sue fantasie per costringerlo ad interessarsi del mondo reale.

Allungò una mano, la infilò tra la spalla e il terreno e toccò qualcosa di secco e spinoso che gli pungeva la pelle nuda.

Si voltò e guardò meglio di che cosa si trattasse: era una spiga di grano.

“Puah! –pensò subito Adriano- è “solo” un’erbaccia” e si accinse ad estirparla dal terreno per poter riprendere posto e ricominciare così a tormentarsi come prima ma... quello stelo era imprendibile, si torceva, scivolava dalle dita, si appiccicava al terreno finchè non lo punse-Ahi!- gridò Adriano tenendosi l’indice e il pollice ben stretti nell’altra mano- Che male! Ma che razza di erbaccia sarai mai?- Erbaccia sarai tu, ignorante che non sei altro! Per tua norma e regola io sono la principessa Spiga della reale famiglia Del Grano e mi sto semplicemente difendendo dalla tua aggressività!-.

 Adriano non credeva alle sue orecchie e aguzzando lo sguardo stentava anche a credere ai suoi occhi!

Dinanzi a lui era erta in tutta la sua “reale” altezza, una creatura eterea e luminosa, dai lunghi boccoli biondi e dall’aspetto decisamente bellicoso.

-Chi sei tu?- chiese Adriano, ritraendosi un po’

Te l’ho già detto! Sei sordo, forse? Sono Spiga, una principessa e tu mi stavi schiacciando con il tuo peso e come se non bastasse mi avevi scambiato per erba cattiva! D’altronde-aggiunse Spiga con un sorrisino di scherno- tu non sei proprio un genio per le valutazioni!-

-Che vuoi dire?- si informò Adriano al quale quella Spiga incuteva una certa soggezione nonostante le dimensioni ridotte.

-Voglio dire -esclamò lei – che non ho alcuna intenzione di aspettarmi che tu riconosca la mia importanza o che tu mi sia riconoscente per il semplice fatto di esistere! Io, caro mio, nutro il mondo! Mi trasformo in pane, pasta, biscotti, torte e tutto ciò che di buono e nutriente ti occorre per vivere bene!

Il mio regno esiste in tua funzione e per il bene di quelli come te, ingrati e irriconoscenti! Altro che erbaccia!

-Mi dispiace- mormorò Adriano contrito- non pensavo che tu fossi quello che sei ti avevo scambiato per un’altra...io pensavo...-

-E’ questo il tuo problema!- lo interruppe Spiga- tu pensi troppo e male. Dovresti pensare di meno e non sprecare la tua vita dietro a false credenze e sciocche paure! Guardati bene! Cosa c’è che non andrebbe in te?-

Adriano cominciò a sentirsi a disagio, cos’era quello un interrogatorio? Ma non poteva sottrarsi allo sguardo imperioso di quell’esserino così piccolo eppure così forte.

-Non..-cominciò- non mi vuole bene nessuno...non servo a niente...non sono capace di fare niente...-poi si fermò: diamine, non gli piaceva parlare ad alta voce dei suoi pensieri, pronunciati così perdevano tutta la loro terribile serietà ed anzi apparivano persino un po’ stupidini!

-Lo vedi che ciò che pensi esiste solo nel tuo pensiero? Trasformato in parole reali già non è affatto la stessa cosa! Dimostrami che nessuno ti vuol bene! Ti picchiano forse? Ti fanno mancare il cibo e l’acqua? Ti costringono a rimanere rinchiuso in casa contro la tua volontà? Ti impediscono di prendere sonno o ti fanno dormire per terra, all’addiaccio?-

Adriano pensò alla sua casa, al tepore del suo lettino a cui la mamma metteva ogni settimana lenzuola fresche di bucato; pensò alla ciambella fragrante che quella mattina aveva inzuppato nel latte ed al pane con la marmellata che aveva appena finito di mangiare per merenda; pensò al fatto che era stato via tutto il giorno e nessuno gli aveva imposto di tornare prima di pranzo e che appena a casa, avrebbe trovato una scodella fumante di minestra e un panino caldo di forno sotto al tovagliolo.

-Veramente- disse con un fil di voce- forse il problema è che non merito ciò che ho-

-Non dire sciocchezze!- lo sgridò ancora Spiga- quel cagnolino ti segue dappertutto perchè tu lo hai salvato da morte certa adottandolo quando era solo un cucciolo abbandonato e infreddolito...ogni sera passi a salutare il vecchio che abita vicino a casa tua e ti ho visto più di una volta fermarti a parlare un po’ con lui-

-E’ sempre solo!- disse Adriano schermendosi- non è un atto eroico augurargli la buona notte!-

-E’ un atto che denota un cuore gentile, Adriano!- e se tu non perdessi tanto tempo dietro ad inutili elucubrazioni,

 a quest’ ora, di atti gentili, ne avresti un miliardo da elencare!

Adriano pensò che avrebbe potuto prendere l’acqua al pozzo per mamma invece di pensare che sarebbe stato un bravo ragazzo se avesse potuto aiutare sua madre e che avrebbe potuto aiutare il padre a spaccare la legna invece di pensare che un bravo figliolo dovrebbe essere un sostegno per il padre: insomma, era lì da tre ore circa a “pensare” che sarebbe potuto diventare un bravo ragazzo e rammaricarsi per questo quando avrebbe avuto tutto il tempo per “esserlo” e basta.

-Vuoi diventare di sangue reale anche tu?- gli sussurrò dolcemente Spiga- “vivi realmente”; non devi fare altro. Sarai un fiero principe anche tu, proprio come me se riuscirai a cogliere la realtà in ogni suo aspetto e in ogni frazione di secondo-

Mentre parlava Spiga lo accarezzava con il suo vestitino di stoppie e gli faceva il solletico...Adriano si grattò e...si svegliò improvvisamente con una spiga di grano stretta nella mano destra!

Ancora un po’ intontito dal sonno, la ripose delicatamente nel fazzoletto e se la mise in tasca; non si sa mai cosa può succedere con un “reale”...guardò il suo orologino da polso,era quasi ora di pranzo, se si fosse sbrigato avrebbe potuto aiutare la mamma ad apparecchiare, così senza pensare che gli sarebbe piaciuto  camminare più velocemente, semplicemente affrettò il passo verso casa.

QUINTO CECE: L’UVA DELL’AVA

In città, si sa, la gente si nutre per lo più di surgelati, telefona con il cellulare, legge e scrive con Internet, si muove su ruote ( scooter, metro, auto, moto...), sale e scende in ascensore, indossa tecnotessuti, usa tecnolinguaggi, insomma,  vive una tecnovita,

Al nono piano di un tecnopalazzo, vive la famiglia Bot composta da papà Bot, mamma Bot e Roberto, il loro figlioletto, detto affettuosamente Ro’.

Ro’ è un paffuto pargoletto biondo di circa quattro anni, tirato sù a liofilizzati proteici, pastine con aggiunta di calcio e biscottini vitaminizzati per cui, possiamo dire, che è un bambino niente male se non dovesse di tanto in tanto, indossare degli  occhialini riposanti a causa dell’arrossamento procurato ai suoi sensibili occhioni azzurri dal prolungato uso dello schermo di computer e TV.

Purtroppo, come quasi tutti i genitori, anche quelli di Ro’ lavorano dalle otto e mezzo del mattino alle 20 e 30 della sera con pausa pranzo dalle 13.00 alle 15.00 assolutamente non sufficiente per tornare a casa ma solo per scendere dai due diversi uffici in due diversi fast-food che si trovano sotto agli uffici ( oramai tutti gli uffici si trovano sopra ai fast food ma è ancora in corso uno studio accademico per appurare se siano i fast food sotto agli uffici o siano gli uffici sopra ai fast food).

In pratica, la vita di Ro’ trascorre presso una baby school all’avanguardia dove la retta è molto salata a causa dell’attrezzatura costosissima di cui ogni piccolo allievo dispone.

L’aula, infatti, è dotata di singole postazioni multimediali interattive da cui i piccoli possono collegarsi con Internet e con Intranet comunicando nel mondo e tra loro.

Settimo cece: I semini dei bambini

Dieci milioni di anni fa accadde un fatto veramente terribile.

L’orco Seccone si era follemente innamorato della fatina Verdolina e voleva sposarla.

Naturalmente una creaturina graziosa e fresca come Verdolina non voleva proprio saperne di unirsi per sempre ad un essere arido come Seccone e rifiutò la proposta di matrimonio.

Seccone la prese malissimo e lanciò una terribile maledizione su quella parte del mondo invocando suo fratello lo stregone del Gelo affinchè facesse diventare di ghiaccio tutto e tutti.

Così fu per moltissimi secoli finchè l’orco Seccone non finì in un burrone e morì mettendo fine anche a tutti i suoi malefici.

Allora la terra si disgelò ed anche le creature ibernate tornarono a vivere ma....le piante non si ricordavano più come fare per mettere al mondo altre piante e si riunirono in assemblea per discutere sul grave problema della loro successione.

All’assemblea parteciparono anche i bambini ma senza diritto di parola.

La quercia presiedeva l’assemblea e stabiliva l’ordine degli interventi.

Parlarono quasi tutti: il pino, l’oleandro, l’alloro, l’abete, il pero, il giunco e persino l’albero della gomma che era un tipo piuttosto appiccicoso tanto che dovettero togliergli la parola perchè non la finiva più di ripetere sempre le stesse cose...

Dopo una notte intera di discussioni e una violenta lite tra il cactus e il ficus che aveva accusato l’amico di sollevare sempre questioni spinose, la quercia decise di sciogliere l’assemblea e di riconvocarla qualora ci fossero delle novità.

Nottetempo, mentre la vecchia quercia cercava di trovare una soluzione al problema e scuoteva forte le sue foglie al vento ( quando gli umano soffrono di insonnia si girano e rigirano nel letto, gli alberi scuotono le loro foglie ), sentì che qualcuno accarezzava il tronco e cercava di arrampicarsi sui rami più vicini: erano i bambini per i quali la quercia aveva un debole perchè le riempivano il cuore di gioia e davano un senso alla sua vita.

-Cari bambini!-sussurrò dolcemente cercando di rendere più facile il loro arrampicarsi abbassando i rami e resistendo al dolce peso- Cara Quercia!- sussurrarono i bambini che, finita l’assemblea, avevano ripreso a parlare- Noi abbiamo la soluzione!-

La quercia trasecolò-Quale soluzione?- chiese, convinta come tutti gli adulti d’altronde, che i bambini non comprendano i problemi e non possano tantomeno risolverli.

I bambini cercarono nelle tasche, presero qualcosa e poi tesero le manine aperte: sui palmi di ciascuno di loro brillavano chicchi dorati.

-Cosa sono?- chiese la quercia incuriosita.

-Semi e semini- risposero i bambini- di tutte le piante, di tutti i frutti, di tutti i fiori...Sono i nostri giochi, li avevamo con noi quando l’orco Seccone ci ha ricoperti di ghiaccio, le bambine li infilavano per farci collane e braccialetti, noi bambini giocavamo a farli rotolare, saltare, ci costruivamo strane casette...ne abbiamo tanti! Centinaia, ben nascosti in ogni taschina dei nostri pantaloncini, delle nostre giacchette, dei grembiulini!-

La quercia tirò un sospiro di sollievo così forte che tutte le piante e i fiori circostanti tremarono come percorsi da un brivido.

-Cari bambini!- gridò la vecchia quercia- Voi avete salvato il Mondo!-

Così, da quel giorno, nelle assemblee importanti, quelle in cui si deve decidere delle sorti dell’universo, Madre Natura ascolta sempre, primi fra tutti gli altri, i bambini....

Ro’ parla correntemente tre lingue anche se ancora ha qualche problema con la “r” e con le doppie nell’uso della propria ma, si sa, un bambino non può essere perfetto e poi queste sono quisquilie di fronte al fatto che sia pure senza R e parlando scempio, Ro’ potrebbe già collegarsi in videoconferenza con Inghilterra, Francia e Germania...

La Domenica, i genitori di Ro’ si godono finalmente un po’ di pace domestica e possono così dedicarsi ai propri passatempi preferiti: le telenovelas e i talk show per la mamma, lo sport e, in particolare Tuttocalcio, per papà.

Ro’ ha una sua televisione personale installata ai piedi del suo lettino con un telecomando incorporato al comodino in modo da poter accendere comodamente appena sveglio e spegnere subito prima di addormentarsi.

In questo panorama di tranquillità ed efficienza scoppia un fulmine a ciel sereno: un telegramma comunica alla famiglia Bot che è defunta l’ultima sorella del bisnonno di papà Bot e che dunque la tenuta Villa Serena comprendente frutteto, oliveto e vigneto è passata in eredità a papà Bot come unico superstite della suddetta famiglia.

Per la prima volta dopo circa duecentoquaranta domeniche trascorse dinanzi alla TV, la famiglia Bot si accinge ad utilizzare l’unico giorno libero per andare a prendere visione dell’eredità.

Ro’ è molto emozionato, un po’ gli dispiace non aver potuto assistere alla duecentoquarantesima puntata di Ufo contro Ofu ma pensa che verrà data la replica il giorno successivo e poi lo intriga quest’uscita inaspettata...

E’ una bella giornata di Ottobre, il sole tinge  d’oro il paesaggio e la tenuta appare in tutta la sua bellezza anche se la casa meriterebbe una ristrutturazione.

Ro’ corre felice a destra e a manca, inseguendo un gattino tigrato si infila in un vialetto che porta al vigneto...oh! Che bell’uva!

Grappoli maturi e rossastri, appannati dallo zucchero che trasuda dai frutti, sono ancora appesi  ai rami della vite e fanno capolino fra i tralci verdeggianti...

Ro’ allunga una manina e ne coglie un grappolino...che bontà!

Ma cos’è questo sapore meraviglioso, di sole e di libertà, di cielo azzurro e di mare, di corse nei prati e di calore di fuoco acceso...per ogni chicco che mette in bocca, un nuovo scenario delizioso si apre dinanzi ai suoi occhi socchiusi...

Il tempo trascorre veloce e Ro’ sente i suoi genitori che

 lo chiamano:-Ro’ è tardi! Se ci sbrighiamo facciamo in tempo a vedere “Se Vinco scommetto” su Canale Undici!-

Ro’ raccoglie in fretta quanti più grappoli d’uva possano contenere le tasche della sua giacchetta e raggiunge velocemente i suoi genitori.

-Assaggia papà, assaggia mamma!-

e papà Bot assaggia e la magia riaccade: si rivede bambino in quel grande giardino, correre in bicicletta con i figli dei contadini  sul viale, fare un tuffo nel lago fresco per sfuggire alla calura estiva, sbocconcellare pane e pomodoro sdraiato sotto il patio...

e mamma Bot assaggia e si ritrova a giocare a campana lungo la via che porta alla sua casa d’infanzia, si vede dare la manina alla nonna per andare alla messa mentre suonano le campane, si vede seduta a tavola con tutta la sua famiglia a festeggiare il compleanno della mamma...

Questa storia finisce così, con la famiglia Bot che decide di trasferirsi in campagna e di dedicarsi alla riorganizzazione della proprietà, con mamma Bot che prepara una torta di carote e mandorle, papà Bot che concorda il prezzo dell’uva con un grossista e Roberto che ruba l’ennesimo grappolo dall’ennesima cesta e se lo va a gustare sull’altalena che il suo papà gli ha costruito con una robusta corda ed un vecchio pneumatico ...

Sesto Cece: Coccole e cicale

C’era una volta un bimbo che si chiamava Cico.

Cico viveva in periferia, in un palazzo di dieci piani e cento appartamenti di una stanza l’uno.

Naturalmente, in tutto quel cemento, Cico era piuttosto infelice.

Si sentiva in gabbia, sempre tra quattro mura in casa e tra quattro mura a scuola:sicchè sommando le mura di casa e quelle di scuola, otto mura erano davvero troppe per un bambino di soli sette anni che aveva voglia di correre nel bosco, fare le capriole sull’erba ed arrampicarsi sugli alberi.

Inoltre, Cico mangiava quasi esclusivamente patatine fritte in busta.

Le patatine erano facili da acquistare e da mangiare ma non erano l’ideale per un bambino che doveva crescere in altezza, infatti Cico cresceva in larghezza ed era piuttosto cicciottello e sempre stanco e svogliato.

L’unico momento veramente felice della sua giornata era la sera, prima di addormentarsi, allora la sua mamma che aveva lavorato tutto il giorno e che era l’unica persona al mondo rimasta con Cico, si stendeva accanto a lui e gli raccontava una storia.

In realtà la mamma AVREBBE VOLUTO raccontare una storia e forse, nella sua testa, la raccontava davvero ma, un po’ per la stanchezza, un po’ perchè stare accanto a Cico, con la sua testolina ricciuta sul cuore le metteva addosso un gran sonno, quello che riusciva a fare davvero era bisbigliare un qualcosa, sussurrare dolcemente parole e frasi che si susseguivano in un lungo “cicicicicicicicicicici...”.

Un brutto giorno la mamma non andò a prendere Cico a scuola e lui non la rivide mai più.

Gli dissero che era accaduto qualcosa di grave e la mamma era volata in cielo da dove lo guardava ogni giorno ma Cico era molto triste e si sentiva solo nell’istituto in cui lo avevano collocato.

Ora aveva solo quattro mura invece di otto perchè la scuola era nell’istituto stesso e al posto delle patatine fritte in busta spesso venivano servite in tavola delle pallottoline dorate che si chiamavano “coccole” e che erano fatte con le patate.

Le coccole erano il piatto preferito da Cico che le trovava molto gustose e chiedeva spesso il bis.

La cosa più curiosa era che nonostante i frequenti bis, le coccole lo facevano crescere in altezza...

L’istituto si trovava al centro di un bel giardino e Cico poteva spesso giocare fuori, correre ed arrampicarsi sugli alberi...

Nel complesso, si era abituato alla sua nuova vita e non si sentiva più tanto infelice tranne quando era il momento di andare a letto, allora pensava alla sua mamma e rimpiangeva quel dolce sussurrare accanto al su orecchio, finchè un giorno accadde qualcosa...

Era arrivata l’Estate e dopo pranzo, Cico si era disteso sul prato, all’ombra di un albero, in cerca di frescura.

Improvvisamente aveva sentito uno strano rumore come un chiacchiericcio fitto fitto che lo avvolgeva e gli faceva compagnia, cullandolo dolcemente.

Le cicale cantavano la loro gioia di vivere ed il loro amore nel folto degli alberi e a Cico sembrò di aver ritrovato la voce della sua mamma che dolcemente gli sussurrava all’orecchio “cicicicicicicic......”.

La Natura, grande Madre, lo avvolgeva con il suo canto e lo conduceva nel mondo dei sogni prendendolo per mano, attraverso le sue creature.

Ottavo cece: Marianna burro e panna

C’era una volta una ragazzina che si chiamava Marianna ed aveva sempre la testa tra le nuvole.

La sua mamma era disperata ed invano la richiamava a terra, Marianna era sempre intenta a fantasticare in chissà quale mondo al di là del cielo.

Succede che quando una ragazzina non sia ben piantata con i piedi per terra, finisca spesso per perdere la bussola  smarrendosi da qualche parte e questo successe a Marianna che un bel giorno si smarrì nel secchio del burro...

L’avventura iniziò un bel giorno quando a Marianna fu affidato il compito di badare al burro che doveva essere preparato per pranzo...

La mamma di Marianna aveva una piccola fattoria e produceva da sè squisiti formaggi, burro e panna fragranti che venivano tutti ad assaggiare dai paesi vicini.

Marianna quel giorno era addetta al burro mentre la mamma era impegnata a far venire alla luce un nuovo vitellino con l’aiuto del veterinario della zona.

Marianna quardava il liquido denso e dorato in fondo al secchio e faceva di tutto per pensare al fatto che quello era burro anzi DOVEVA diventare burro e non si trattava di oro o di sabbia del deserto sulla quale vagare con una carovana di cammelli o magari in sella ad un cavallo arabo dal manto candido....ed ecco che la sua testolina era già lontana dal secchio e dalla fattoria, era avvolta in turbante turchino che le copriva anche la bocca ed il naso per ripararsi dal vento che soffia sempre nel Sahara ed i suoi occhi cercavano invano un’oasi presso la quale fermarsi per abbeverare gli animali e trovare il meritato sollievo all’arsura desertica....

-Marianna!- una voce bruscamente riscosse Marianna dal sogno ed una mano altrettanto brusca che Marianna riconobbe essere quella familiare della sua mamma le tolse dalle mani il mestolo-Marianna ! Ma è possibile che non ti si possa affidare nulla?Dove sei con la testa?-

Nel desert...-stava per rispondere Marianna ma si fermò in tempo, la mamma era davvero arrabbiata e poi aveva ragione, il burro era rovinato per colpa sua!

Mamma, perdonami, ti aiuto a preparare la panna per farmi perdonare!-

La mamma era indecisa, il vitellino non nasceva e lei doveva tornare nella stalla...-Va bene!- disse-Ma promettimi che sarai ben attenta a ciò che fai!-

Marianna promise e cominciò di buona lena a rimestare il latte già preparato dalla madre nell’apposito recipiente per farne venir fuori della panna morbida e fragrante...rimestava e man mano che il liquido cambiava aspetto assomigliava sempre più ad una nuvola soffice che lei contribuiva a gonfiare, a gonfiare...-La renderò così soffice e leggera che prenderà il volo e si solleverà come una nuvola e raggiungerà le altre, nel cielo e quando gli aeroplani la incontreranno, i passeggeri potranno raccoglierne un po’ con il cucchiaino e spalmarla sul caffè...-

Ancora una volta, come vedete, Marianna era intenta a fantasticare ma per fortuna la sua fantasticheria, questa volta, era in sintonia con ciò che doveva fare perchè ispirata dal pensiero della nuvola di panna, rimestava nel recipiente con forza trasformando il liquido denso e lattiginoso in una meravigliosa e spessa coltre di panna montata.

Quando il vitellino venne al mondo, alla fattoria della mamma di Marianna si fece una grande festa e tutti gli ospiti convennero di non aver mai assaggiato una panna più buona di quella preparata quel giorno dalle manine di una certa bambina...

Nono cece: Le uova e la luna nuova

In un paese molto lontano, dall’altra parte dell’Universo, c’era  il regno del principe Infelice.

Il principe era alto, biondo, con occhi cerulei, un vero angelo.

Aveva tutto quello che un principe possa desiderare: sudditi fedeli, consiglieri fidati, soldati valorosi e un cuoco che cucinava per lui vivande prelibate.

Dormiva in un grande letto a baldacchino, tra lenzuola di seta e guanciali di piuma; vestiva abiti in broccato e pietre preziose; cavalcava destrieri lucidi e focosi; passeggiava in un giardino meraviglioso dove erano riunite le piante più pregiate e i fiori più variopinti e profumati.

Il principe dormiva, si abbigliava, cavalcava e passeggiava ma non sorrideva mai.

Il suo volto era sempre improntato alla massima serietà e nei suoi occhi si scorgeva un velo di malinconia che li annebbiava e nascondeva il loro splendore, rendendoli cupi.

La regina, il re ed ogni nobile di corte si prodigavano per rendere felice il principe ma non c’era nulla da fare; egli negava di essere triste o malinconico, semplicemente diceva che non sapeva cosa fosse la felicità.

C’è da dire che il principe aveva delle strane abitudini: non usciva mai dopo il tramonto e anzi, di solito, per quell’ora, era già nel letto regale.

Quando qualcuno gli domandava perchè mai andasse a letto così presto, egli rispondeva che lo faceva per mettere fine quanto prima al nuovo giorno e, prima di ritirarsi nelle sue stanze, salutava tutti con la frase:-Un giorno in meno!- frase che lanciava nello sconforto la regina madre, disperata per questo atteggiamento di un figlio così bello e così triste.

Un giorno, dopo pranzo, il principe decise di provare un nuovo cavallo, Grifone, un bellissimo puledro storno, donatogli dalla fata Morgana, sua madrina, in occasione del ventesimo compleanno.

Grifone trotterellava tranquillo e rispondeva a tutti i comandi del principe fino al momento in cui non gli fu imposto di tornare in scuderia.

Riconosciuta la strada di casa, il cavallo diede un forte strappo alle redini facendole sfuggire di mano al principe che fu costretto ad aggrapparsi alla criniera; privo di guida, il cavallo si addentrò nel folto del bosco e continuò a galoppare per ore ed ore portando seco il giovane stremato dalla fatica.

Finalmente, al calar della sera, il cavallo rallentò la sua folle andatura  fino a fermarsi del tutto in una radura, in riva ad un lago.

Una luminosa luna piena rischiarava l’oscurità e le acque del lago, svelando una giovane donna intenta a fare il bagno.

Ora, vi potrà sembrare inaudito ma il principe più chè dalla figura sinuosa nel lago era attratto dalla splendida palla di luce che vedeva risplendere nel cielo: non aveva MAI veduto nulla di simile!

Ritirandosi nelle sue stanze al tramonto, si era perduto per venti anni lo splendido spettacolo di una luna piena...

Guardò e contemplò, osservò e si incantò finchè la sua attenzione non fu attratta da un intenso e stuzzicante profumino proveniente da un mucchio di sassi sul limitare del lago.

Scese da cavallo e si avvicinò alla fonte di tanto gradito odore e...cosa vide? La luna friggeva in fondo ad una grossa padella il cui manico era sorretto da una graziosissima fanciulla!

-Sei forse una fata?- le chiese il principe-Come hai fatto a prendere la luna?-

La fanciulla lo guardò per un attimo stupita poi scoppiò in una risata cristallina- Che sciocco!La luna! Vuoi assaggiarla la mia luna?- disse e presto fatto rivoltò in un piatto il contenuto della padella e ne tagliò un grosso pezzo che porse al principe.

Il principe assaggiò e...gli sembrò che tutte le meraviglie del mondo gli si fossero sciolte nel palato:com’era saporita la luna, così morbida e fragrante, dorata al punto giusto!

-E’ una frittata!-disse ridendo la fanciulla-una frittata fatta con le uova delle mie galline- vedi?- disse indicando con il dito una casetta poco lontana- io abito lì- e questa- e indicò il mucchio di pietre al centro del quale ardeva ancora un fuocherello- questa è la mia cucina!-

Il principe era al settimo cielo:tutto gli sembrava incantevole e nuovo, quella splendida luna, il cibo semplice e squisito, gli occhi ridenti di quella misteriosa creatura..

D’impeto le tese la mano e, sorridendo, la strinse dolcemente a sè:-Tu sei tutto ciò che ho sempre desiderato, non voglio lasciarti mai più!-

La fiaba finisce così, con un principe Infelice che finalmente scopre la felicità e sorride grazie alla luna, ad una frittata ed al calore del cuore  di una donna....

Decimo cece: Storia del pane di Pino

Giuseppe abitava in montagna, su una delle vette di una catena montuosa.

Era sempre vissutò là, era nato là e la sua mamma ed il suo papà gli avevano insegnato fin da piccolo come fare a sopravvivere, lavorando sodo tutto il santo giorno.

Giuseppe aveva imparato a sciare meglio  che a  camminare e, d’Inverno, scendeva veloce in paese a provvedersi di ciò che poteva occorrere alla sua famigliola.

Loro tre facevano tutto in casa: il pane, il formaggio, focacce e frittate buonissime e persino marmellate deliziose che la mamma di Giuseppe detto Pino, preparava con le sue mani, in Estate, quando in montagna si trovavano i frutti di bosco che Pino raccoglieva abbondantemente riempiendo un po’ il cesto e un po’ la sua pancina...

La vita trascorreva serenamente anche se Pino non poteva riposare quasi mai perchè c’era sempre qualcosa da fare:accomodare la staccionata, portare a pascolare la mucca e le capre, dar da mangiare a galline e conigli, zappettare l’orticello che richiedeva moltissime cure per poter fornire nella buona stagione, alla famigliola, insalata, pomodori e qualche frutto. 

L’unico cruccio di Pino era diventato, da qualche tempo, il fatto che la sua mamma non poteva più mangiare come avrebbe voluto a causa dei denti mancanti...

In particolare, quello che era diventato difficile da masticare era il pane nero, quel buon pane di orzo che lei stessa impastava da sempre per tutti ma che, ormai, ella non mangiava più.

La soluzione al problema arrivò un bel giorno di Primavera mentre Pino era intento ad abbeverare le sue bestiole al ruscello, in una radura.

Sentì avvicinarsi delle voci ed una voce cristallina in particolare lo colpì, la voce di una donna che invitava gli altri ad arrampicarsi ancora un po’...Dopo pochi minuti infatti, ecco arrivare un gruppo di turisti in escursione su quelle montagne.

Guidava il gruppo una graziosa ragazza che si avvicinò a Pino per chiedergli se l’acqua del ruscello fosse potabile.

Pino la rassicurò facendole vedere che lui stesso la utilizzava per dissetarsi e dalla sua bisaccia tirò fuori il bicchiere di latta e il pane d’orzo che la madre aveva preparato per lui.

La fanciulla era piuttosto affamata e chiese a Pino se fosse possibile mangiare qualcosa nei dintorni, così lui invitò tutto il gruppetto nella sua casa e la mamma gli fece onore servendo in tavola tutte le buone vivande che facevano parte della loro vita semplice ma genuina.

I turisti rimasero entusiasti e la ragazza rivelò di essere la figlia di un ricco imprenditore che aveva una catena di ristoranti in tutto il mondo...

Il pane di Pino fece in breve il giro dei locali più rinomati e, in cambio, Pino potè regalare alla sua mamma una dentierà nuova di zecca con la quale ella potè riprendere con soddisfazione a mangiare con gusto!